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Sette giorni per i lupi Sette giorni per i lupi (RVH, #2)
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Ascesa alle Tenebre Ascesa alle Tenebre (RVH, #1)
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Eccovi il capitolo 7, uno di quelli più significativi, perchè conduce direttamente al luogo e al tempo in cui il destino di Raistan umano si compirà.

Ladies and gentlemen, please, enjoy the show!

 

 

7

 


VECCHIA MORTE, NUOVA VITA

 

 

 

 

In uno dei miei solitari vagabondaggi serali, avevo scoperto una fumosa taverna sprofondata in un seminterrato.

Solo che era più di una taverna.

Attraverso una piccola porta accanto al bancone, si accedeva a un mondo parallelo molto più oscuro, ma l’ingresso era a discrezione dell’enorme buttafuori che vi stazionava davanti in pianta stabile.

La prima sera, notai subito l’andirivieni delle persone che si infilavano nella porticina, dopo aver superato l’esame del bestione. Chiesi all’oste dove andasse tutta quella gente, ma lui, dopo avermi squadrato con aria ostile, mi consigliò di tornarmene alla mia birra. Il germe della curiosità si era ormai impossessato di me; finii la birra, uscii e mi appostai lì fuori, un po’ nascosto. Quando uno dei tizi cui avevo visto varcare il misterioso confine uscì, lo avvicinai e gli offrii cinque scellini per dirmi cosa succedeva là dentro e che cosa bisognava fare per essere ammessi. La lingua gli si sciolse all’istante. «Fanno combattimenti a mani nude, amico, a volte qualcuno ci rimane secco. Per entrare bisogna sapere la parola d’ordine, cambia ogni sera. Domani sarà Westminster, se t’interessa.»

Lo ringraziai e me ne andai a casa, deciso a ritornare la sera dopo per dare un’occhiata. Non avevo mai visto un combattimento, anche se ne avevo sentito parlare, visto che a Londra erano piuttosto diffusi, soprattutto nelle fasce più basse della popolazione. In genere erano poveri disperati disposti a massacrarsi per pochi penny. La cosa tuttavia esercitava su di me una strana attrattiva e per tutto il giorno seguente, al lavoro, non feci altro che pensarci e ripetermi la parola d’ordine per paura di dimenticarla. La sera, ignorando le proteste di Kristen che mi voleva trattenere in casa, tornai alla taverna, l’“Hammerfall”, ordinai una birra e mi diressi verso il mio amico buttafuori.

 

 

«Di nuovo qui, biondo?»

«Sembra proprio di sì. Westminster, giusto?»

 

 

Con un grugnito, al bestione non restò che farsi da parte e aprirmi la misteriosa porticina. La stranezza del posto, che da fuori sembrava piccolissimo, era l’ampiezza del ring e soprattutto delle tribune per gli spettatori: formavano un anfiteatro a gradinate degradanti, in modo che tutti potessero seguire gli incontri senza alcuna ostruzione nella visuale. In quel momento, due tizi se le stavano dando di santa ragione. A giudicare dalle loro condizioni, la cosa durava da un bel po’. Le tribune erano piene fino all’inverosimile, ma la cosa che mi colpì maggiormente fu la varietà degli spettatori presenti. C’erano sì molti membri degli strati più bassi della popolazione, ma anche moltissime persone vestite alla moda e tante donne, alcune delle quali davvero molto eleganti. Urlavano e incitavano questo o quell’altro combattente quanto e più degli uomini, ogni dettame di buon comportamento gettato alle ortiche.

I due sulla pedana, intanto, uno giovane e snello e l’altro più vecchio e corpulento, si stavano massacrando. Non riuscivano quasi più a sollevare le braccia per la stanchezza, avevano il volto ridotto a una maschera di sangue, ma non sembravano disposti ad arrendersi. Alla fine, il giovane riuscì a centrare la mascella dell’altro con un ultimo, devastante gancio, e il robusto stramazzò a terra, tra i fischi e le grida del pubblico. Due tizi lo portarono via, mentre il giovane sollevava le braccia in segno di trionfo e barcollava come ubriaco per scendere.

Ero combattuto tra due sentimenti opposti: disgusto nel vedere il livello di barbarie cui potevano arrivare i miei simili, e ammirazione per tanto scriteriato coraggio suicida.

Un viscido personaggio era intanto salito a sua volta sul ring e stava chiedendo con voce untuosa se tra il pubblico ci fosse qualche volontario disposto a battersi contro il loro successivo campione. Era vestito in maniera elegante, ma persino da dove mi trovavo io, non certo in prima fila, si notava quanto i suoi abiti fossero sporchi e trasandati, come se in realtà fosse travestito da nobile, senza esserlo davvero. La parrucca era storta e arruffata e non osavo immaginare lo stato dei suoi capelli, al di sotto.

 

Sapete, a quel tempo lavarsi era considerato una pratica dannosa: si pensava che lo sporco, sigillando i pori, non permettesse agli umori cattivi – gli antenati di virus e batteri nelle conoscenze umane – di penetrare nel corpo facendolo ammalare. La gente seguiva in massa questi dettami e i vestiti venivano indossati fino a che non cadevano a pezzi, senza mai beneficiare di un lavaggio. Le uniche parti del corpo che di tanto in tanto venivano a contatto con l’acqua erano le mani e la faccia, ma non era così scontato. La maggior parte della gente faceva il bagno circa una, due volte l’anno, in occasione delle feste comandate, e la cosa finiva lì.

Sarà che mia madre, invece, era una persona molto pulita, ho preso anch’io abitudini igieniche più accurate e non mi è mai piaciuto frequentare persone dall’odore meno che tollerabile, ancor più da quando sono un vampiro e il mio olfatto si è affinato. È già successo, specie in quei tempi ormai lontani, che mi sia ritratto con disgusto da una vittima per il tanfo che emanava, lasciandola libera di fuggire. L’imperativo era non respirare. Solo così potevo tollerare di affondare i denti in una gola che aveva visto di sfuggita l’acqua sei mesi prima.

Ma sto divagando.

 

Il viscido continuava il suo discorso di arruolamento: «Allora, davvero tra lor signori non esiste un coraggioso che voglia provare l’ebbrezza della sfida estrema che siamo qui per proporvi? Voi, ad esempio, signore – indicò un piccoletto nelle prime file, che scosse subito la testa freneticamente – no? Peccato, avevate proprio il fisico adatto! Allora voi, signore con i baffoni, là dietro. Non siate timido, si vede subito che morite dalla voglia di tirare qualche bel colpo! – altro precipitoso cenno di diniego – no? Avanti, signori, non vorrete mica che la serata finisca qui!»

Come guidata da una volontà aliena, vidi con stupore la mia mano che si sollevava. Prima di avere il tempo di chiedermi che diavolo stessi facendo, il viscido mi aveva indicato a tutta la platea e non mi rimase altro da fare che alzarmi, schiacciato da quelle cinquecento paia di occhi, e dirigermi verso la pedana col cuore in tumulto. La superficie del ring era cosparsa di macchie di sangue, chiazze di sudore e liquidi vari non meglio identificati. I lottatori che mi avevano preceduto erano scalzi, ma io avrei tenuto ben calzati i miei stivali, se avessi potuto, visto che si scivolava come sul ghiaccio. Fui invitato a togliere la camicia e quando obbedii, sentii parecchie esclamazioni femminili farsi largo attraverso il mio panico. Non ero nello spirito giusto per apprezzarlo, al momento.

 

Il viscido, intanto, sempre più gongolante, stava introducendo il mio avversario. Con orrore, vidi salire sulla piattaforma una specie di gorilla privo di collo ma con le braccia più grosse che avessi mai visto, che mi sovrastava di almeno una quindicina di centimetri. Rimasi impietrito al mio posto, all’angolo sinistro, mentre sentivo gli occhi dilatarsi sempre più per la paura. Ero schiacciato contro le corde di canapa che delimitavano l’area di combattimento e non riuscivo nemmeno più a pensare. Poi, suonò la campana che dava inizio al match e le mie percezioni cambiarono, diventando più…acuminate. È l’unico termine che continua a tornarmi in mente per definire la sensazione di…messa a fuoco estrema che mi avvolse, insieme a una calma glaciale. Anche la paura se n’era andata.

L’omone non perse tempo e si diresse verso di me a passo pesante e con le braccia enormi distese verso il basso, i pugni serrati. Era chiaro che pensava di risolvere la faccenda in cinque minuti e non si degnava nemmeno di tenere la guardia alzata. Io mi staccai dalle corde, il primo movimento che compivo, e mi spostai lentamente verso destra, senza mai distogliere lo sguardo. Aveva occhi quasi privi d’intelligenza, animati soltanto da un istinto primordiale e dalla voglia di far male. All’improvviso si scagliò in avanti e tentò di affondare il primo colpo con il braccio destro, ma lo trovai così lento che non ebbi nessuna difficoltà a schivarlo, inclinando il busto all’indietro. Sentii il boato della folla e avvertii una fitta di eccitazione, quella che in pochi mesi sarebbe diventata la mia droga. Lo scimmione provò di nuovo, questa volta con l’altro braccio. Altra schivata, altra acclamazione, altro piccolo passo verso la dipendenza.

Stavo provando per la prima volta nella vita la sensazione di essere accettato dalla gente. Mi piaceva.

 

Intanto l’avevo aggirato, senza fretta. Quello con le spalle alle corde era lui, adesso. Un sorrisetto strafottente mi era affiorato alle labbra; mi sentivo bene, padrone di me stesso, il sangue mi scorreva rombando nelle vene, ero vivo!

La prima volta che lo colpii, poi, oh, estasi! Il dolore alla mano fu tremendo, ma mi diede solo nuova carica. Quando il pugno lo raggiunse al volto, rimase scosso per un istante, non era quello che si sarebbe aspettato, poi abbassò la testa e con una velocità che mi colse di sorpresa, m’investì con tutto il suo peso e mi trascinò a terra sotto di lui, progettando una metodica ristrutturazione delle mie ossa facciali. Disgustato dal suo alito fetido a pochi centimetri dalla faccia, gli ficcai entrambi i pollici negli occhi, premendo ben bene, facendolo urlare di dolore e di furia; sollevò le mani per portarle al volto ed io lo colpii alla gola con tutta la forza che avevo, due volte, e poi lo spinsi via, capovolgendolo come una tartaruga. Mi rialzai, accompagnato dall’incitamento della folla, e mentre era ancora a terra a ululare per i suoi poveri occhi, presi a colpirlo con qualunque mezzo, come d’altro canto era consentito: pugni, calci, soprattutto calci, direi, sferrati con cattiveria, senza più remore o compassione. I suoi movimenti si fecero sempre più blandi, finché alla fine rimase immobile, il volto trasformato in un ammasso di carne sanguinolenta.

 

Lo uccisi? Non lo so, non lo incontrai mai più.

Me ne importa? Beh, no. Ho fatto molto di peggio. Dovrebbe importarmi di uno così quando non provo rimorso per nessuna delle vittime di trecento anni di scorrerie notturne? Voi pretendete troppo da un semplice vampiro.

Quella sera, con il viscido che sollevava in alto il mio braccio in segno di vittoria e decretava la nascita di una nuova stella della boxe, capii che non avrei più potuto rinunciare all’urlo della folla che gridava il mio nome. “Olandese”, mi chiamavano, e sera dopo sera accorrevano sempre più numerosi per assistere ai miei combattimenti. Qualcuno mi disse una volta che sembrava di assistere a una danza, alla letale danza del ragno quando si avvicina alla preda intrappolata nella sua tela. La velocità e l’agilità che avevo sempre posseduto mi tornavano utili, finalmente. Stavo cominciando a guadagnare anche un sacco di soldi, intanto; il giro di scommesse era notevole e il vincitore aveva diritto a una percentuale su quelle a proprio favore, ma non era un aspetto che mi interessava in modo particolare. L’avrei fatto anche gratis.

 

Il pubblico femminile aveva superato in percentuale quello maschile e sempre più, erano dame d’alta classe ad assistere ai miei incontri. Lo ammetto, la mia vanità era enormemente solleticata. Non mi ero mai ritenuto bello, a dire il vero non ci avevo mai riflettuto sopra. Ora, però, sentire tutti quei sospiri e quei gridolini al minimo movimento che compivo…era appagante, non posso negarlo.

Non combattevo ogni sera, non avrei mai potuto reggere quel ritmo; dopo un paio di mesi mi ero stabilizzato sulle due, tre volte la settimana. Ormai Kristen non diceva una parola, quando mi vedeva uscire, si era arresa. La prima volta che tornai a casa seriamente ferito dopo un incontro, con il naso rotto e diverse costole incrinate, a giudicare dalle fitte lancinanti che sentivo a ogni respiro, diede in escandescenze: «Cosa ti è successo?! Ti hanno aggredito? Oh mio Dio, oh Signore, oh Dio…» sarebbe andata avanti all’infinito se non l’avessi fermata. Avevo mal di testa, volevo solo sdraiarmi al buio e nel silenzio, ma dovevo darle almeno uno straccio di spiegazione o mi avrebbe fatto impazzire. «Non è niente, nessuno mi ha aggredito…o meglio, sì, ma nessuno che non mi aspettassi.»

Come chiarimento non era un granché, ve lo concedo.

 

«Cosa vuoi dire? Di che cosa stai parlando, per amor del cielo?»

Così le raccontai del mio strano passatempo, e man mano che parlavo l’espressione sul suo volto si faceva sempre più allarmata e confusa.

«Ma…perché? Che gusto c’è a farsi ridurre così? E se un giorno troverai un vero animale che ti ucciderà? Cosa ne sarà di me e di Ambrosine? Hai promesso di prenderti cura di noi, non te lo ricordi più?!»

La testa stava per esplodermi. Perché non poteva tacere e basta?

«Lo sto facendo! Ti sembra che ti manchi qualcosa? Ti sommergo di regali, lavoro tutto il giorno, perché alla sera non posso fare qualcosa che piace a me?»

«Ti piace? Come fa a piacerti una cosa così…barbara? Massacrare di botte altri uomini e farsi massacrare, cosa ci può essere di bello?»

 

Non capiva e non lo capì mai e io ben presto mi stancai di tentare di farglielo comprendere. Non che fosse facile, me ne rendo conto, ma su quel ring mi sentivo invincibile, ammirato e soprattutto, come vi ho già accennato, vivo. Quando sferravo il colpo decisivo al mio avversario, ormai in mio potere, mi sentivo addirittura Dio. Anche ora, quando do la caccia alle mie vittime e infine me ne cibo, mi sento così. Sono io che decido quanto durerà il loro supplizio, se sarà più o meno doloroso, se li tratterò come persone degne di rispetto o come merendine. Ho potere sulla loro paura, so come sfruttarla a mio vantaggio, sono l’ultima cosa che vedranno su questa terra. Sono la morte. Se non è potere questo…

Quando Ambrosine scoprì, grazie a mia moglie, quello che combinavo nel mio tempo libero, rimase a sua volta allibita e addolorata e mi pose all'incirca le stesse domande sui motivi che mi spingevano a farlo. Anche lei non capì, ma invece di farmi sentire in colpa, mi chiese di stare attento e basta. Questa era la differenza tra loro: Kristen era fondamentalmente egoista, come me del resto, mentre Ambrosine si preoccupava soltanto del mio bene.

Col passare dei mesi, intanto, nessuno osava più scommettere contro di me e gli allibratori erano disperati. Su trentacinque combattimenti, non ce n’era uno che non avessi vinto, ventisette per KO e otto per abbandono. Cercavano quindi di mettermi di fronte ad avversari sempre più forti e il pubblico era così numeroso che molte persone non riuscivano a entrare. Il più felice era il padrone del locale, che non aveva mai fatto affari simili in vita sua.

 

 

Da qualche settimana, uno strano gruppo aveva preso a frequentare l’arena. Erano cinque uomini e una donna, impossibile confonderli nella massa. Prima di tutto erano molto più alti della media; vestivano in modo simile, tutti in nero, anche la donna, che indossava abiti che parevano provenire da un altro secolo: lunghi, fluenti, di velluto o di seta, con maniche ampie dal gomito in giù, senza alcuna traccia delle armature e dei corpetti che modificavano le forme del corpo, tanto in voga in quell’epoca. Anche se differivano nel colore dei capelli o nelle fattezze del volto, i sei si assomigliavano, come fratelli. Erano molto pallidi, si muovevano con eleganza estrema e portavano piccoli occhiali dalle lenti scure, ovali o leggermente allungate, una vera stranezza, per quell’epoca. Sembravano sempre sapere quando avrei combattuto e ottenevano ogni volta posti nelle prime file. Cosa ancora più bizzarra, la gente pareva non gradire la loro vicinanza. Dopo pochi minuti dal loro arrivo, lo spazio più prossimo attorno a loro si svuotava e, con l’esperienza che ho ora, sono certo non fosse un comportamento cosciente, da parte degli altri spettatori. La donna si sedeva per prima e gli uomini prendevano posto sempre nello stesso modo: due alla sua sinistra, due alla sua destra e uno dietro di lei.

So che suona folle, ma mi accorgevo sempre quand’erano arrivati, anche se mi trovavo nel bel mezzo di un combattimento. Il mio cuore accelerava ogni volta, perché la vista della donna, così elegante, altera, così diversa dalla massa urlante che ci circondava, era qualcosa da cui non riuscivo a staccarmi, se non con un enorme sforzo di volontà. Per la prima volta, stavo prendendo in considerazione l’idea di tradire mia moglie, o, per meglio dire, ci fantasticavo sopra. Era bellissima, ma sembrava irraggiungibile, tanto valeva provarci con la regina. Eppure era chiaro che la sua presenza in un luogo tanto sordido fosse dovuta a me.

C’era sempre un attimo in cui mi voltavo a guardarla, cercando di intercettare il suo sguardo nascosto dietro le lenti scure; lei mi rivolgeva un cenno con la testa o un sorriso. Questo mi faceva balzare il cuore in gola, e se stavo troppo a pensarci rischiavo di perdere la concentrazione.

 

La sera che avrebbe segnato il mio destino, ebbi in sorte di incontrare un tipo davvero monumentale. Gli organizzatori d’altronde non sapevano più chi schierare, pur di farmi perdere almeno un incontro e ridare un po’ di vita al giro di scommesse, che languiva miseramente.

Confesso di aver provato davvero paura per la prima volta. Questo non era il solito omone grosso, stupido e lento, era una montagna di muscoli dall’aria sveglia e letale. Il suo sguardo non mi abbandonò nemmeno per un attimo, mentre nei rispettivi angoli cercavamo di concentrarci sull’incontro. Sembravano occhi da alligatore, fissi e freddi, per di più di uno strano colore vicino al giallo. E se quella sera mi fosse successo qualcosa di grave? Come sarei riuscito a mantenere la promessa che avevo fatto a Roger? Che ne sarebbe stato di Ambrosine e della mia Kristen? Giurai a me stesso che, se fossi uscito vivo da quell’incontro, mi sarei preso una lunga pausa di riflessione e avrei dedicato più tempo e più attenzioni alla mia povera moglie. Avremmo potuto comprare una casa più grande, magari in quei quartieri che mi piacevano tanto, e Ambrosine sarebbe potuta venire ad abitare con noi.

Non ero religioso, non lo sono mai stato, ma in quei pochi istanti che precedettero la campana, so di aver pregato.

Mi sfilai la camicia dalla testa. Ero già fradicio di sudore e avevo la gola completamente secca.

Le donne tra il pubblico gridarono di ammirazione.

Mi voltai per lanciare la solita occhiata alla strana signora che mi faceva sempre visita, ma stavolta c’era terrore nei miei occhi, lo sapevo. Lei lo percepì e si alzò in piedi, fissandomi, immobile come una statua.

 

La campana suonò e io mi voltai, giusto in tempo per vedere il mio carnefice avventarmisi contro con una velocità e una furia che avevano del sovrumano. Il primo colpo mi raggiunse in pieno al plesso solare, questo lo ricordo. Rammento l’orribile sensazione di soffocamento, di essermi piegato su me stesso con la bocca spalancata alla ricerca disperata di aria, conscio che da un momento all’altro un secondo colpo, ancora più devastante, mi avrebbe raggiunto in qualche altra zona, ma senza avere la forza per schivarlo. Il tizio mi prese per i capelli e mi costrinse a sollevare la testa. Mi fissò per un attimo, ghignante, godendosi i miei penosi rantoli e il terrore nei miei occhi, poi mi colpì di nuovo nello stesso punto, con il gomito, questa volta. Le gambe cedettero sotto di me, e lui mi trattenne per i capelli come una bambina dispettosa che maltratta la sua bambola. Da almeno un minuto, non un filo d’aria riusciva a penetrare nei miei polmoni; in quanto al vederci, inquietanti macchie nere stavano iniziando a prendere possesso del mio campo visivo. Mi aggrappai al suo braccio; il dolore alla testa era mostruoso. Avrei voluto battere i tre colpi di resa, ma prima dovevo raggiungere il pavimento e lui non aveva nessuna intenzione di lasciarmelo fare. Continuava a reggermi per i capelli e a scuotermi, ridendo dei miei fiacchi tentativi di colpirlo; sembrava che stesse aspettando che mi riprendessi appena un po’, per poi ricominciare. Facendo appello a non so quale riserva di forze, riuscii a ruotare su me stesso e, tenendolo per il braccio, mi abbassai e lo feci volare sopra la mia testa, spedendolo a terra. Un’intera ciocca dei miei capelli rimase nella sua mano, strappata fino alla radice; il sangue prese a colarmi sul viso, accecandomi.

 

Ricordo di aver sentito la gente urlare. Erano rare le volte in cui mi avevano visto sanguinare e mai in quel modo. Raggiunsi le corde e mi ci aggrappai per un attimo, un dolore terribile che dal petto mi s’irradiava nelle braccia fino ai polsi, il respiro che affluiva ai miei polmoni soltanto in minima parte, senza mai osare staccare gli occhi dal mio avversario che, come prevedibile, si stava rialzando e sembrava molto più infuriato di prima. Non lanciai il segnale che mi avrebbe liberato da quell’incubo, anche se ero certo di perdere, e di perdere malamente. Eppure non potevo rinunciare a essere il migliore, quello che la gente faceva la fila per vedere. Non volevo tornare a essere uno qualunque, quel maledetto non poteva strapparmi in cinque minuti quello che mi ero guadagnato in più di sei mesi di sofferenza!

Sentii la rabbia che montava dentro di me e la accolsi con gioia, perché scacciava la paura e il dolore. Mi acquattai toccando per terra con una mano, in una posizione molto simile a quella che assumo adesso quando devo difendermi, del tutto istintiva. I capelli e il sangue mi coprivano il volto quasi per intero e li scacciai con rabbia, scrollando la testa con un gesto che spedì gocce tutt’intorno in un raggio di parecchi metri. Mi è stato riferito in seguito che quest’episodio provocò un’isteria di massa tra le donne delle prime file, decise in ogni modo ad accaparrarsi almeno una stilla della mia linfa vitale. Io non mi accorsi di niente. Ansimavo, avevo le braccia quasi insensibili, ma ero di nuovo l’Olandese e stavo per attaccare. Scattai in avanti e investii il mio avversario con una testata nello stomaco, poi lo abbrancai e lo trascinai a terra, stringendolo alla gola con entrambe le mani; aveva un collo così grosso che non riuscivo nemmeno a cingerlo per intero. Il resto, curioso lettore, è caos, un caos fatto di dolore e sangue, il mio e il suo. Non ho idea di quello che successe dopo, non ricordo i colpi né chi li sferrò, né per quanto tempo. So solo che a un tratto ero in piedi, che il viscido stava sollevando il mio braccio verso il cielo e che qualcosa di terribilmente doloroso accadde alla mia schiena. Poi persi i sensi e quando mi risvegliai, ero nel luogo in cui il mio destino si sarebbe compiuto.