"Ero in quello che assomigliava a un auditorium, o un teatro, con i sedili degradanti. Io mi trovavo in basso, con le tribune che si ergevano davanti a me, su qualcosa di simile a un palco. Non riuscivo a vedere in modo nitido: era come se ci fosse un velo fra me e il resto dell’ambiente che me lo impediva. Il luogo era deserto, il silenzio totale.
Poi li sentii. Bisbigli, sussurri e movimenti leggeri, là, in alto. Sagome che si muovevano con lentezza e sembravano prendere posto sugli scranni. Ebbi paura, come se qualcosa di orribile stesse per accadere, e tentai di muovermi, per andarmene. All’improvviso, era vitale per me lasciare quella sala. Invece non potevo. Ero legato alla poltrona del dottore, apparsa dal nulla sotto di me e non avevo modo di liberarmi.
“Assassino.”
Sentii ogni centimetro di pelle incresparsi in un brivido. Era stato quasi un soffio, ma gelido come l’inverno. Non era stata una voce sola a pronunciare quella parola, ma molte di più, sincronizzate come in un coro.
“Chi è?” urlai “Fatevi vedere, vigliacchi!”
“Siamo noi. Siamo tutti qui. Siamo venuti per te.”
“Chi? Chi siete?”
“I morti. I tuoi morti.”
“Cosa significa? Che cosa vuol dire i miei morti?”
“Siamo coloro che hai ucciso. Ci siamo tutti, dal primo all’ultimo.”
“Io non ricordo nessuno di voi. Eravate soltanto cibo, ne avevo bisogno.”
“Cibo? Cibo? Io…”
Il velo si dissipò, chissà come, e potei finalmente vederli. Erano innumerevoli. Migliaia, ricoperti di sangue, le gole squarciate, le teste a volte piegate in strane, innaturali angolazioni. La persona che stava parlando era una ragazza. Avrei giurato di non averla mai vista, ma lei era convinta del contrario. Riuscivo a scorgere segni di morsi sulla sua gola. Aveva i vestiti a brandelli, impossibile attribuirle un’epoca storica. Era in piedi e mi fissava con quei suoi orribili occhi vitrei, appannati, implacabili.
“Avevo solo sedici anni, non avevo mai fatto male a una mosca. Vivevo per strada perché i miei genitori erano morti, assieme al mio fratellino. Non avevo più nessuno, né una casa, ma speravo. Speravo in una vita migliore. E tu mi hai tolto anche questo.” La ragazza si sedette, subito sostituita da un giovane uomo, uno di quelli con il collo piegato in modo grottesco. Riuscivo persino a intravedere il biancore delle vertebre che fuoriuscivano dalla pelle grigiastra del collo.
“Io avevo vent’anni, invece. Ero andato a bere una pinta in una taverna, per festeggiare la nascita di mio figlio. Il mio primo bambino. Tu sei impazzito, là dentro, e hai ucciso tutti. Sono qui con me. Ero riuscito a uscire, ma tu mi hai inseguito. Ti ho supplicato. Ero inerme, a terra. Mi è appena nato un figlio, ti ho detto. E tu mi hai spezzato il collo.”
“Mi avresti denunciato! Lo avreste fatto tutti, non potevo lasciare nessuno vivo!” Urlai, ero furioso. Possibile che non capissero che non c’era niente di personale, in quello che avevo fatto? Non avevo scelta, tutto qui.
“Che cosa ti fa pensare che la tua vita sia più importante della nostra?” chiese una terza voce, appartenente a un’altra donna, più vecchia dei due precedenti. Gola squarciata anche lei. Non le risposi. Non potevo. Abbassai la testa e chiusi gli occhi. Volevo che se ne andassero e mi lasciassero in pace, tutti quanti.
“Rispondi!” tuonò la voce corale, facendomi trasalire come se mi avessero fulminato.
“È l’istinto… abbiamo bisogno di sangue umano, per vivere…” mormorai.
“Bugiardo! Se voleste, anche il sangue degli animali potrebbe andare bene. Non era di questo che si nutriva, il tuo amico Stefan?”
Non risposi. Cercai di forzare le cinghie e le fasce metalliche che mi bloccavano sulla sedia, ma era tutto inutile. Mi abbandonai contro lo schienale, fissando il soffitto con gli occhi che mi bruciavano.
“Rispondi!” urlarono di nuovo.
“Non… non è la stessa cosa… io non ci sono mai riuscito…”
“Non ci riuscivi o non volevi?”
“Non lo so. Lasciatemi in pace, sono un vampiro, che cosa potevo fare? Non ho mai fatto soffrire nessuno di voi, sono sempre stato rapido, non…”
“Sei sicuro?” mi chiese una ragazza, in piedi nella parte alta della struttura. Non era devastata come gli altri, ed era molto bella, con lunghi capelli castani e occhi dalle ciglia folte. Ricordavo quel viso, ma non riuscivo a collocarlo, né nel tempo, né nello spazio. Anche altre persone, numerose, devo dire, si erano alzate. Alcuni di loro erano in condizioni davvero spaventose. Un uomo era privo degli occhi, eppure mi stava guardando lo stesso.
“Sì, io non…”
“Ti sei infilato nel mio letto, dopo aver ucciso il mio André. Mi hai violentato e poi ti sei nutrito da me… hai perfino preteso che ti abbracciassi… e mentre piangevo, lo hai fatto di nuovo…”
“Io stavo tornando da una battuta di pesca, mi hai sorpreso sulla spiaggia. Ti ricordi di quello che mi hai fatto? Mi hai cavato gli occhi, perché hai detto che non ti piaceva come ti stavo guardando…”
“Io stavo pattugliando le strade di Parigi… mi hai inseguito per un’ora, facendomi credere di esserti sfuggito… mi hai rotto una gamba per impedirmi di correre… e alla fine mi hai strappato via la testa…”
“Io…”
“Basta! Non voglio più sentire niente, andate via!”
Moltiplicai i miei sforzi per liberarmi, schiacciato dai loro sguardi accusatori e da un sentimento che stentavo a riconoscere, perché non l’avevo provato molto spesso: la vergogna. Era lì, acquattata in un angolino della mia anima, e lottava per uscire allo scoperto, mentre la mia coscienza razionale faceva di tutto per ricacciarla indietro, trovando scuse e giustificazioni al mio comportamento.
“Non ero del tutto in me, quando ho fatto quelle cose. Dovevo…”
“Dovevi?” chiese il coro.
“Dovevo sfogarmi!”
Una risata, lugubre e priva di allegria, percorse le tribune. Adesso c’era una bambina, in piedi. E un’altra, un po’ più in là, e un’altra, più diversi maschietti; non portavano segni di morsi, ma erano comunque cadaveri, con i visi grigiastri e gli occhi infossati nelle orbite.
“Che ci fate voi, qui? Non ho mai ucciso bambini, nemmeno uno!”
“Non direttamente, è vero. Eppure è per colpa tua, se siamo morti. La notte in cui sei venuto a casa mia e hai ucciso tutta la mia famiglia, io sono scappata fuori per cercare aiuto. Sono caduta in un pozzo che il mio papà avrebbe dovuto riempire di terra e mi sono rotta una gamba. Sono rimasta lì per giorni a urlare e a piangere, ma nessuno mi ha sentito. Sono morta in un buco, con la terra che mi entrava negli occhi e in bocca, e gli insetti che mi camminavano addosso. Sei contento?”
“No, io… sarebbe potuto succedere comunque, non è colpa mia… non ho mai ucciso bambini… mai…”
“Io ho visto tutto quello che hai fatto alla mia mamma e al mio papà. Ero nascosto nella dispensa e piangevo… poi ho sentito tanto male qui” - era un maschio sui sette anni, a parlare; si stava toccando il centro del torace – “e poi più niente. Poi ho incontrato di nuovo i miei genitori e loro mi hanno detto che eravamo morti. La mia mamma aspettava un altro bambino. Guardalo.”
“No. Per favore, no.” Avevo chiuso gli occhi, ora; li tenevo serrati, così come i pugni, ma sentivo le lacrime scendermi lungo le guance e l’impulso irresistibile di aprirli.
“Devi guardarlo! Per colpa tua non ha goduto nemmeno di un giorno di vita!”
“No. Non voglio. Non voglio!”
Sentii un peso leggero, sulle gambe. Qualcosa di umido e freddo. Mi ricordò un pesce, puzzava anche altrettanto, ma sapevo che non lo era.
“Apri gli occhi, assassino” mi disse il bimbo di poco prima.
La cosa sul mio grembo si muoveva. Debolmente, ma lo faceva, emettendo un verso che si sarebbe potuto scambiare per il miagolio di un gattino. Mi schiacciai contro lo schienale, pieno di disgusto, scuotendo la testa con forza. Non potevano costringermi. Invece, percepii delle piccole mani che strisciavano sul mio viso, verso gli occhi, e urlai come un pazzo, perché sapevo quello che volevano fare. Mi sollevarono le palpebre, e io ancora cercai di voltarmi, di nascondere il viso sotto i capelli, perché temevo che se avessi posato gli occhi su quello che volevano mostrarmi, sarei impazzito.
Ora, c’erano tantissime mani a tenermi fermo il capo, a costringermi ad abbassarlo per guardare la cosa orribile che si contorceva sulle mie gambe. A nulla valsero le mie suppliche, il mio pianto disperato; dovetti farlo. Era quello che temevo. Un feto, già a un buon grado di sviluppo, i minuscoli arti che si contraevano e la testa enorme che oscillava lentamente, con le piccole labbra che si aprivano e si chiudevano alla ricerca di un cibo che non avrebbero mai gustato. Possibile che avessi attaccato un donna incinta e non me ne fossi accorto?
“Mi dispiace… se lo avessi saputo, l’avrei lasciata stare… non lo sapevo… mi dispiace… basta… per favore, basta…”
“E noi? E tutti noi? Non sei dispiaciuto anche per noi?” disse il coro “Non meritiamo il tuo rimorso?”
Il feto era scomparso dal mio grembo, così come i bambini intorno a me. Per qualche istante non riuscii a rispondere, ma soltanto a piangere con singhiozzi squassanti, la testa china.
“Non… non lo farò più… non… infierirò più su nessuno, ma non posso… non posso smettere di uccidere… sono condannato a farlo, se voglio sopravvivere… vi prego, cercate di capire… vi prego…”
“Ti ripetiamo la domanda che ti abbiamo posto all’inizio, Raistan Van Hoeck, poi ti giudicheremo: che cosa ti fa pensare che la tua vita sia più importante della nostra? Che noi tutti fossimo sacrificabili per il tuo bene e la tua sopravvivenza?”
“Io voglio vivere!” urlai “Voglio vivere e per farlo devo nutrirmi, sono come una bestia feroce, devo uccidere, non posso smettere! Lo farei, se potessi, ve lo giuro. Vorrei tanto poterlo fare, ma non posso. Non posso. Vi prego…”
“Non è abbastanza. Ti giudichiamo colpevole.”
Quella parola risuonò infinite volte per tutta l’aula. Ognuna di esse era come una coltellata.
“La tua condanna è l’infelicità eterna. Non proverai alcun piacere nelle cose che farai, da adesso in poi. Tutti quelli che ami si allontaneranno e resterai solo. Noi saremo la tua unica compagnia, per tutti i secoli dei secoli. E quando morirai, saremo qui ad aspettarti.”
“No… per favore… mi dispiace… mi dispiace tanto…”
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Cristina Ghia (venerdì, 25 settembre 2015 22:45)
E il resto??? Non si può aspettare a questo punto!!!!
Damiana (venerdì, 25 settembre 2015 22:48)
Primo estratto prime lacrime, Lucia che tu ci vuoi morte è assodato. Bravissima , tensione già alle stelle. Raistan non sarai mai solo!
LuciaG (venerdì, 25 settembre 2015 23:35)
Easy, girls, easy! Il tempo verrà!
francy (sabato, 26 settembre 2015 18:25)
l'ho letto d'un fiato e poi riletto lentamente, per non perdere nemmeno una sfumatura, una virgola, un sospiro. Voglio il quarto libro...subito!
Missing Sun (mercoledì, 30 settembre 2015 14:01)
cavolo se mi era mancato Ray!!!
Questo brano è decisamente tosto, anzi tostissimo... Vedere Raistan confrontarsi con i rimorsi è lancinante... Non oso pensare come evolverà la storia...Ho i lacrimoni agli occhi...Ray finirà per uccidermi!!!